Si parla spesso della solitudine dell’imprenditore, sia per sottolineare la grandezza quasi “regale” di tale ruolo e l’unicità dell’energia creativa e di comando, ma anche per evidenziare le difficoltà nel condividere le proprie intuizioni e decisioni. Due aspetti della stessa realtà, quella imprenditoriale, che portano ad una condizione esistenziale costantemente in bilico tra potenza e rischio.
Oggi questa condizione è ulteriormente esasperata dall’evoluzione socio-culturale. Infatti, se fino a poco tempo fa la solitudine dell’imprenditore era compensata dalla certezza di una visione economica in cui l’agire dell’imprenditore era legittimato dalla chiara finalità del profitto e sorretto da un compendio di regole d’efficienza (organizzazione, catena di comando, redditività), oggi i contorni di questa cornice di sostegno si sfumano rendendo meno chiaro e legittimo il senso stesso del fare impresa. Eppure la necessità d’impresa non è affatto venuta meno; a fare la differenza è l’aspetto sociale, civile e culturale.
È proprio questa crescita del significato socio-culturale che impone all’imprenditore un cambiamento di mentalità, di coordinate prospettiche. Ciò richiede l’abbandono del mito dell’imprenditore-eroe e le rassicuranti – nonché “scientifiche” – certezze dell’economia e dell’organizzazione che rappresentano le basi formative dell’imprenditore stesso.
Naturalmente l’ambiente accademico abbonda di critici intellettuali pronti a scagliarsi contro la “vecchia” figura imprenditoriale e che sollecitano lo sviluppo di nuovi ideali d’impresa. Ma, in attesa di nuove teorie che uniscano ideali “vecchi e nuovi”, l’imprenditore è sempre più solo, privato anche delle certezze e degli onori dal quale ha sempre tratto sostentamento. In questo modo, chiamato ad un formidabile cambiamento della propria forma mentis, egli è costretto a sperimentare la solitudine di chi deve necessariamente mutare le proprie certezze.
Da solo...almeno per ora.