Condiziona-menti VS libertà d’azione
Ecco come un approccio formativo costruttivista, orientato verso l’unicità di ogni individuo, permette di ottenere risultati dagli alti standard qualitativi ma soprattutto performativi.
"Formazione - è bene tornare alle origini etimologiche e semantiche della parola - significa dare forma restituire bellezza, creare o ricreare identità in azione. Form-Azione.
Formare è pertanto un atto di insegnamento, ossia il tentativo balbettato e discreto, ma al contempo appassionato e competente, di volere consapevolmente lasciare un segno (In-Segnare).
Produrre un cambiamento scelto, voluto, libero.
Oggi invece, per comodità e pretesa di efficacia a breve termine, il lavoratore è soggetto ad addestramento, per cui si opera tra passeggiate sui carboni ardenti e kayak nei casi più risibili, e a piennellismi emotivamente condizionanti per parvenu, a render destra una sua parte per agirla in un determinato comportamento; si lavora su una sola porzione, su un solo pezzo di carne professionale, si stimola un lacerto di persona che in una relazione necessaria di causa-effetto dovrà dare una risposta pavloviana, comportamentista.
Pena il fallimento.
Rischiamo pertanto di addestrare lavoratori che come cani salivano allo stimolo sonoro anche senza la presenza di cibo. Non deve esserci spazio alcuno per la libertà personale.
Insomma, il successo bisogna salivarlo istintivamente e non sudarlo responsabilmente.
Un autentico atto formativo è, o meglio ha la pretesa di essere, un atto di invito alla libertà dell’altro, una domanda che possa aprire un mondo fatto di bisogni, motivazioni, desideri.
La formazione non è una teoria presupposta che si possa applicare meccanicamente, poiché l’altro, il lavoratore, il partecipante, il discente è libero.
Pertanto la formazione è un ATTO educativo, non una potenza teorica addestrativa da applicare senza un criterio o un’ipotesi che tengano conto dell’individualità e della diversità che ne consegue.
Un atto di libertà autentica (quella del formatore) che incontra dialetticamente, talora drammaticamente, un’altra libertà in azione a lavoro.
Grandi teorici da i '90 ai giorni nostri continuano a predicare un’autoefficacia sentimentalista e, pertanto, spoglia di consapevolezza e responsabilità personale e individuale, modelli che pretendono di innestare competenze soft come valori, efficacia, volemose bene, ma senza tenere conto del rigetto naturale e inevitabile del corpo trapiantato.
Membra estranee e patogene se dietro o prima non vi è un lavoro di consapevolezza vocazionale e attitudinale sulla persona a lavoro.
Ma questi modelli, che tanti danari hanno fruttato in passato, nel presente di crisi finanziaria e antropologica rischiano di cadere nel nulla angosciante della paura della discontinuità e dell’impermanenza, e di infrangersi nel dolore e nella mancanza di sostegno quotidiano di chi prova ad investire sé stesso a lavoro.
Formatore e formando, insegnante e allievo, credo solo a questa modalità oggi, ossia la possibilità concreta e affascinante di lavorare non sulle competenze posticce e omologanti, ma sulla vocazione o talento del singolo."
continua...